Il carattere squisitamente femminile della lingua veneziana, prorompe dalla
sua dolcezza sonora, dall’abbondanza di diminutivi e di parole
protettive e soprattutto dall’uso del termine mona che
designa il sesso della donna. Parola non volgare e despettiva al
contrario quanto avviene nelle altre lingue del mondo. Il Veneto
non è lingua arrogante e maschile. Filippo Tommaso Marinetti definisce
la Serenissima Vulva d’Europa, la struttura stessa
di questo idioma si snoda seducente, gentile, dolce, a somiglianza
dei palazzi che coronano il Canal Grande superbi edifici
galleggianti nella melma di inaffidabili isolotti. Alberto
Savinio, nel suo “Ascolto il tuo cuore, città”annota
mentre sta aspettando il vaporetto: “Venezia sta seduta sull’acqua,
ma dubito che questa sia una ragione sufficiente perché il
parlare dei suoi abitanti sia così inzuppato. Il veneziano è una ‘lingua
senz’osso’.Poco sostegno e assenza di doppie consonanti
cui si aggiunge in simmetria nell’urbanistica e nell’architettura,
l’assenza della linea assolutamente dritta, fallica. Lingua
e città molli ed elastiche,e proprio per questo più solide
e longeve di altre.
Venezia differisce da ogni altro agglomerato urbano,
il suo punto di riferimento sprofonda in quelle stesse acque dalle
quali ha saputo – stupenda e Serenissima donna – ergersi
da sola a difesa di se stessa. Venezia è il simbolo di una
figura muliebre che vive protetta dalla sua bellezza. ‘Na
bela dona ga sempre razòn: una bella donna
ha sempre ragione, si dice. Amata e ammirata non è mai
stata presa, violentata, saccheggiata. Protetta dal matrimonio
segreto con il mare che la aiuta a fermare i nemici e protetta
dai suoi migliori gendarmi, i fondali bassi della laguna che rendono
impotenti le navi nemiche incagliate nella sabbia. Venezia è inviolata per
questo motivo in questa città si sviluppato il culto della
Vergine. Qui si prega anche la Madonna della Salute reincarnazione
della pagana Reizia dea venerata nei luoghi dove sgorgano
le medicamentose acque che ridanno la salute nei colli di Abano.
A Venezia si incontrano nelle calli frequenti altarini di
devozione dedicati Maria, e parallelamente qui si promuove la
devozione per la donna. Mona non è quindi
meramente sesso ma simbolo di vita, di fertilità e di amore.
Nel Veneto, il sesso non è stato demonizzato e la parola mona non è mai
stata tabù impronunciabile. Prova ne sia che la modalità altra
indicante questa parte del corpo, figa, con la
G e non con la C come dovrebbe dirsi in italiano, è diventata
aggettivo del patrimonio linguistico dei tutto il Bel Paese e sta
per ‘bello’, ‘stupendo, ‘super’.
La donna nel Veneto è rimasta connotata metonimicamente
con il suo organo genitale, che produce, prolifica, che
fa (dal latino facere).
Mona aggettivo indeclinabile che sta per ‘sciocco’ e
non suona troppo dispregiativo.
Mona, come sostantivo, non esprime
quella sinistra volgarità che il termine emana in altre lingue
vicine e lontane. Pizda nelle lingue slave, Fotze in
tedesco, Cunt in inglese.
Si pensi che la parola francese Con, (sesso femminile)
al tempo degli squisiti salotti letterari, era termine bandito
anche quando costituiva parte di un altro parola come convitare
o convenire. Era d’obbligo frugare fra i
sinonimi per evitare le tre lettere sconvenienti. A Venezia
e nel Veneto nello stesso periodo mona era
termine ampiamente usato.
Il Tassini riporta un aneddoto che conferma il non tabù della
parola inscenandola in un vero teatro. Quando sbarcarono a
Venezia i duchi di Curlandia (Lettonia) nel 1785 fu gioco
forza trovare per loro un palco al teatro San Beneto. Solo la nobile
e splendida Cecilia Tron, che fu anche amante di Cagliostro
e della cui candida bellezza cadde innamorato il vecchio poeta
milanese Parini, fu disposta a cedere il suo palco per la
cifra spropositata di 80 zecchini.
La sera dello spettacolo la nobildonna esosa entra in
teatro tra un crescendo di rime offensive.
Immediata
la risposta di Cecilia Tron che seduta accanto
al nobile consorte, ribatte prontamente:
La Trona, la mona, la dona!
La signora Tron, il suo sesso, lo dona!
ETIMOLOGIA
L’etimologia della parola mona è rivelatrice
dell’essenza del termine. Riporta al latino mea domina,
mia signora, mia padrona termine di riverenza riservato
alle donne di alto rango, Mea domina si contrae poi in Madonna,
Mia donna o Mia signora, che diventa Monna o Mona, titolo
dell’emblematico dipinto di Leonardo da Vinci: Monna
Lisa.
Mona astrae una parte per il tutto.
La donna quindi è il suo sesso, anche per il fatto che
questo è celato nelle pieghe del suo corpo. Mentre l’uomo
possiede un sesso che si articola staccato dal corpo
come le altre membra. Nell’ideologia patriarcale occidentale
si denigra e sacralizza allo stesso tempo l’organo genitale
femminile che diviene il luogo di sentimenti ambivalenti.
Improbabile l’etimologia che fa derivare la parola mona da maimon,
un tipo di scimmia domestica e anche nome proprio in medio
oriente, come Maimoona. I dipinti veneziani molte mostrano
donne medioevali o della rinascenza con furetti,
ermellini, cagnolini, gatti, o altri animali
scaldanti da grembo ma la scimmia nella pittura veneta
compare solo in epoca tarda, nel settecento.
Mona si declina nelle diverse modalità offensive
e anche si utilizza nell’allontanamento e nell’ dell’esecrazione:
(Va’) in mona to mare: (va’)
nel sesso di tua madre. Tipico della sintassi del veneziano è introdurre
il complemento di moto a luogo con la preposizione ‘in’,
anziché con la preposizione ‘a’. Ad esempio
si dice ‘vado in branda’ per dire ‘vado a letto’ o ‘vado
in spiaggia’ per dire ‘vado al mare’. La spiegazione,
di natura antropologica, risiede nella ‘visione del mondo’ della
cultura veneziana, la quale a sua volta affonda le proprie radici
anche nella speciale morfologia del territorio. Namo
to mare è la versione capovolta di va
in mona to mare, in argot trevigiano.
Variazioni sul tema:
Va in mona a to sorela,
Va in mona a to àmia: va nel sesso
di tua zia (amia deriva dal latino amita, cioè zia
da parte di padre): Nel Veneto l’onorabilità di
un uomo risiede ‘anche’ nel comportamento sessuale
della sorella, in forma attenuata però. Nell’Italia
centro meridionale l’insulto è gravissimo. Lo spettro
dell’incesto, presente nell’insulto, rispecchia
un legame e un intreccio intenso fra i componenti dello stesso
nucleo familiare ed è diffuso in tutto il mediterraneo.
Come è noto,
i popoli nordici ignorano questo tipo di offesa. Non esiste nelle
lingue dell’Europa a nord del Veneto un corrispettivo. I
francesi, discendenti dai galli, popolazione germanica, hanno inventato
recentemente un’ingiuria incestuosa, un curioso neologismo
insultante che mescola l’arabo e il francese: Nik
ta mère fotti
tua madre, di evidente influenza maghrebina.
Va in mona! sta per “vattene”, oppure
per “ma che dici mai”! Rivela quindi fastidio o
incredulità. Una modalità linguistica inusuale giacché in
tutti dialetti e in quasi tutte le lingue si invita l’importuno
a subire castighi diversi. A Roma c’è il blando ma va a
magna’ er sapone! ma va mangiare il sapone! Nel
mondo è più frequentela pena della sodomizzazione. Va te
faire voir chez les grecs: vatti a far vedere dai
greci dicono
i francesi. Vete a tomar por culo in castigliano,
dove tomar sta
per prendere Ruj iantah ruj dicono gli
arabi-libanesi dallo stesso significato del precedente. Va
in mona è quindi
un insulto attivo e che suona dolce e persino beneaugurante a chi
non è veneto, nella misura in cui rinvia ad un atto erotico
e all’unione
con la donna: originario oggetto del desiderio. Questo particolare
insulto, può voler dire Fa’ritorno nel luogo dal
quale sei venuto al mondo.
Il sesso femminile che non è tabù è dipinto nei
muri cittadini da mani ignote.
Nel palazzo dei Camerlenghi, a Rialto, dove si vede scolpita nel bassorilievo‘la
mona che bruza’ una vecchia con in sesso in fiamme.
Mani di eccellenti artisti hanno messo l accento
sulla mona.
La
pittura veneziana del ‘500 è ricca di raffigurazioni
in cui la mona è il fulcro assoluto della
scena. La Venere del Tiziano, conservata ad Urbino,
e la Venere del Giorgione di Dresda,
mostrano la mano che si poggia nel triangolo ad attirare su di esso l’attenzione. Ancora più sfacciato il messaggio nella serie tizianesca dei dipinti ad olio dove Venere giace accanto a un suonatore.
La
fortunata serie delle ‘Veneri
con musicista’, opere di Tiziano, sono un argomento che
riscosse grande successo. Numerose versioni, qui se ne indicano
solo alcuni, mostrano senza vergogna suonatori che arpeggiano sui
tasti o sulle corde senza guardare lo spartito, vecchi o
adolescenti tutti torcono il busto e aguzzano lo sguardo fissandolo
il centro del corpo della Venere sdraiata dietro a loro.
La parola Mona ricorre nel senso di aggettivo
che sta per “sbadato”, “stupidotto”.
Monetine d’oro o d’argento fabbricate dagli orefici
veneziani, mostrano la scritta: Do schei de mona in scarsela, due
soldi di dabbenaggine in tasca che uomini e donne usano
portare in tasca o in borsa come amuleto-memorandum.
Si
crede che sia meglio mostrasi sprovveduti e timidi per non svegliare
l’invidia
o la cupidigia del prossimo. Se il caso si presenta sarà più facile rifilare
a chi è caduto nella trappola, una sottile fregatura. Non
c’è, in laguna, infatti il desiderio arrogante
dell’intelligenza sprezzante, il ccà nisciuno è fesso qua
nessuno è stupido dei napoletani. Il mostrarsi bonariamente
un po’ cretini non solo è accettato, ma viene addirittura
apprezzato. Insomma essere mona non è assolutamente
delitto da rimproverare.
Pasar da mona pa no pagar el dassio: passare
per cretino pur di non pagare il dazio. E ancora mostrarsi
innocuo, un vero.
Finto mona: finto stupido, è colui
che ostenta una falsa ingenuità, e un distacco dal
contingente , il non vedere, il non sapere, il non dar a
vedere, si esibisce in svariate frasi idiomatiche. In napoletano
esiste un’espressione
similare ma nel contempo ben diversa: Fà o scem
pe nun ghi a' guerra: Fare lo scemo per non andare
in guerra.
A Napoli si è quindi disposti a mostrasi scemi per
evitare una situazione mortale: la guerra. Nel Veneto ci si mostra
stupidi per eviare di sborsare un po’ di denari
Tuti ga la so ora de mona: tutti hanno
il loro momento di stupidaggine. in questa espressione popolare
c'è l'accettazione benevola verso le persone senza troppo
raziocinio. Follia, incantamento o leggera ebbrezza è accettato
solo in un paese esempio storico di tolleranza.
Smonà: aggettivo
sta per ‘depresso’, ‘sfigato’.
Toco de mona: pezzo di fica sta
per “donna bellissima, monumentale”. Laddove
la parcellizzazione espressa con la parola ‘tocco’ ingrandisce
e magnifica. Il sesso femminile è la rappresentazione della
donna stessa. Fra i due sessi però non c’è simmetria.
Non esiste il corrispettivo maschile.
La ze tuta mona: quella é tutta fica,
completa identificazione della donna col suo sesso.
La par quela che la ga inventà la mona: sembra quella
che ha inventato la fica, sta per donna bella e desiderabile
che si crede presuntuosamente l’ inventrice dell’ avvenenza
e della seduzione.
Mona fiapa: epiteto in uso fra le popolane per
indicare fino agli anni ‘70 una donna che preferiva partorire
in ospedale invece che con la levatrice in casa. L’aggettivo fiapo avvizzito,
appassito, ma soprattutto in quest contesto ha significato di molle
e senza coraggio. Deriva dal latino flaccus, floscio.
Muso da Emme. Non evoca un termina scatologico M è la
prima lettera di mona. Faccia da mona sta
per, ‘antipatico’.
Sgrandessòn de mona: Borioso di fica .Sta
per "persona che si dà tante arie".
La parola sgrandessòn o grandesson deriva
da grande, mentre qui mona ingigantisce e magnifica
il difetto Il veneziano non sopporta chi si comporta
in maniera altezzosa o che finge grandezze e possibilità non
di sua competenza.
Son andà co’ la mona sui copi: sono
andato a finire con la fica sulle tegole. Per ‘sono
finito a gambe all' aria’ 'sono scivolato', per strada.
In tanta mona: sta per "allo sprofondo",
in "luogo lontanissimo". La mona è qui metafora di posto
difficilmente raggiungibile e nascosto.
Date da far! Che ti ga za trentacinque ani sula mona: datti
da fare che hai già trentacinque anni sulla fica Dice
una madre alla figlia che non un lavoro, un marito. Espressione
raccolta nel 1990 in Barbaria delle Tole a Venezia, nel Sestiere
di Castello. Il sesso femminile è il luogo centrale dell’esistenza,
il buco attorno al quale si organizza l’intera struttura
della donna.
Tasi mona! Sta zitto stupido! questo è l’insulto
che Mario Corso giocatore dell’Inter, lanciava al suo allenatore
durante gli allenamenti alla Pinetina. Parole venete che l’inventore
della ‘foglia morta’, nato a san Michele Extra in provincia
di Verona, pronunciava a voce bassa guardandosi le scarpe, affinché fossero
recepite non dall’insultato, ma dagli amici vicini. L’insulto
in tutta la regione Veneta è spesso sbieco, mai diretto.
Il grande eroe dell’Inter ricorreva al protettivo espediente
dell’ ingiuria
a bronsa covertabrace coperta quando
veniva redarguito da Helenio Herrera per il suo comportamento da smonà sfigato,
che anticipa quello dei sessantottini. Mariolino entrava in campo
con le ‘spighette’ (lacci delle
scarpe) slacciati.. Il curioso della faccenda è che quando
i compagni di squadra fecero la spiata a HH questi, straniero,
e assolutamente digiuno di dialetti italiani interpretò l’espressione mona come
un aggettivo lusinghiero. In castigliano la parola mona come
sostantivo indica una ciambella di Pasqua, cioè un dolce
con un buco centrale, ornato di uova, canditi e altre leccornie. Mona è anche
aggettivo che sta per carino, grazioso, gradevole e, il
sostantivo monada,
vuol dire delizia, meraviglia.